Cookie Consent by Free Privacy Policy website Velocità di fuga - sei parole per il contemporaneo
gennaio 26, 2023 - Espoarte

Velocità di fuga - sei parole per il contemporaneo

Mentre scrivevo l’introduzione a questo #libro, chiuso nel mio studio a Torino, guardavo su FaceTime mia figlia Morgana. Ci guardavamo, proprio come facciamo spesso di presenza, ma mi domandavo dove si trovasse davvero questo nostro sguardo, come fosse possibile guardarsi quando quel che vedono i miei occhi non sono altri occhi – gli occhi di Morgana – ma l’immagine degli occhi sullo schermo. Il progresso spesso satura falsamente i bisogni, tutto così poi può improvvisamente continuare. Un solo tempo, nello sguardo tra me e mia figlia, e poi due spazi. Il qui e ora, saltato per sempre. Le tecnologia del progresso sono oggi la nostra nuova pelle. Sono la pelle di una nuova entità collettiva radicalmente lontana da ciò che con questa proposta della velocità di fuga sto cercando di immaginare e prescrivere. In poco tempo, sono nato nel 1988, gli innesti elettronici hanno trasformato ogni mia immagine nell’immagine di uno schermo. Spesso paragoniamo il digitale alla rivoluzione dell’invenzione della stampa, ma sbagliamo. Oggi la rapidità delle trasformazioni tecnologiche supera perfino la nostra capacità di assimilarle, in cinque anni chiunque può diventare vecchio – un detrito del progresso. Non sai usare TikTok? Non conosci il linguaggio delle nuove divinità? Sei vecchio. Io, sono vecchio. Ogni sei mesi assistiamo all’obsolescenza di apparecchi e applicazioni che ci sembravano eterni, ed è proprio questo il punto: il progresso mira alla distruzione dell’eternità in vantaggio del futuro. Sembrava una rivoluzione spaziale, invece è temporale.

Lo studio della stabilità di un sistema dinamico è un problema diffuso in diversi settori della conoscenza umana, ma in filosofia non ne abbiamo a mio avviso mai parlato come si dovrebbe. In parte, forse, è connesso alla vita che molti che fanno il mio mestiere devono svolgere. Prima dell’epidemia da Coronavirus non ho mai dormito più di cinque giorni consecutivi nello stesso letto – il dinamismo instabile è spesso stato venduto come l’unico vero modo di essere filosofo o curatore oggi. Talvolta, penso al famoso progetto “Do it” del curatore svizzero Hans Ulrich Obrist, proprio come l’unico modo di essere creativi. Viaggiare, scrivere in treno o aereo, visitare musei e luoghi di città diversissime tra loro. Non certo il prototipo di una vita stabile direi.

Ogni tanto mi chiedo come abbiamo potuto decidere d’imbarcarci, un po’ tutti, nella nave della fretta e del progresso come unica scelta possibile. In che modo e per quali motivi abbiamo finito per assumere il ruolo che oggi è il nostro: come mai potremmo disintossicarci da tutto ciò. Possiamo chiamarla fede o approvazione del disegno insindacabile del progresso per cui siamo costretti all’accettazione della parte che ci è stata assegnata. Molti filosofi, in fondo figli di Hobbes più o meno legittimi, invocano il determinismo sociale o la natura umana – non possiamo che espanderci, conquistare e correre, fino al collasso del sistema generale descritto anche dal più ottimista degli accelerazionisti. 

Il neoliberismo, ma forse più in generale proprio l’ideologia anti-stabilità, invocano il futuro come se si trattasse di un dato meteorologico – che tempo farà domani? – e la certezza del barattare l’oggi per il domani come se stessimo parlando dell’unico e autentico, insostituibile, pilastro ideologico della nostra specie. Ma c’è qualcosa di ancor più incredibile: perché chiamare libertà una performance quotidiana come la nostra che non può stabilire i termini della propria entrata in scena né riscrivere il proprio ruolo? Il punto, dunque, è proprio questo non essersi sforzati neanche lontanamente di produrre un’ideologia alternativa a quella maggioritaria. È difficile studiare, fare della filosofia, quando questo spettacolo del progresso, che ha un palcoscenico vasto quanto il mondo e la cui durata coincide con quella della vita umana, sembra impossibile da fare vacillare anche davanti agli infiniti dati emergenziali di cui disponiamo. Come se non bastasse, tutto ciò è trasversale a ogni filosofia, forse addirittura a ogni politica. L’anarchia? Spazzata del tutto. La pensione, l’allungamento dell’età della vita, il successo, sono tutte finzioni che diventano vere in scena grazie a un esercizio costante di narcotizzazione generale. Ma a chi giova davvero la stabilità dei ruoli attribuiti? Siete davvero felici così? Come sono assegnate le parti, quanta predestinazione c’è? Perché ripetere incessantemente le stesse battute dello stesso testo? Diciamo tutti che speriamo che le cose migliorino, ma cosa facciamo per farlo? Perché mancano interi argomenti alternativi a quelli del progresso forzato ai paragrafi della storia ufficiale? Com’è possibile che non si possa mettere in discussione tutto anche ora che abbiamo, palesemente direi, fallito?

Preferiamo la sottomissione a una verità prodotta da altri piuttosto che il fatto di essere responsabili della produzione di una nuova verità. Il primo atto d’emancipazione filosofica consiste tuttavia nel prendere coscienza di quanto, in quest’opera naturalizzata del miglioratismo del poi, chiunque di noi potrebbe prendere il ruolo di chiunque altro. Morto un uomo, se ne fa subito un altro. L’antropocentrismo è anche e soprattutto l’idea dell’uno vale uno: noi siamo ciò che produciamo, mai ciò o chi siamo. L’antropocentrismo vi spinge a dimenticare l’idea di essere speciali nel paradosso della responsabilità quotidiana. Ma fuori dalla micromunità, dove davvero ogni partecipante è speciale e specializzato, c’è il territorio del capitalismo dove un corpo è un qualsiasi corpo. Una mente è una qualsiasi altra mente. Condividere qualche milione di euro con gli influencer più bravi di Instagram o TikTok fa parte del copione. La stabilità impone presenza a se stessi, il progresso la riproducibilità tecnica dei soggetti. La rivoluzione non comincia con un post su Facebook, ma con l’apertura di un varco, una pausa, un minuscolo spostamento anticipazionista, una deviazione verso la semplicità nel gioco delle improvvisazioni complesse. La stabilità, lo ripeto, è una disintossicazione. La stabilità, come la libertà, avranno luogo – se lo avranno, nella dimensione dell’offlife.

Perché è così difficile affrontare quello che arriva? Perché non lo conosciamo. Un sistema, fatto degli opposti esatti delle sei parole su cui ho scritto questo #libro, però è ormai fallito. La mia proposta, cantiere volutamente aperto e tutto da fare, è quello di inventarcene un altro: una via di uscita, forse, è davvero possibile.

Benvenuti nell’epoca della velocità di fuga.